30/05/2021

di Carlo Alfaro

Il tema del romanzo

Il romanzo narra la vicenda, umana ed artistica, della grande danzatrice russa Violetta Elvin, nata Prokhorova e vedova dell’avvocato e albergatore vicano Fernando Savarese. Ma in realtà è anche, se non soprattutto, la celebrazione delle meravigliose bellezze naturali di Vico Equense, un omaggio dello scrittore ai suoi nonni materni, don Raffaele e donna Peppinella, originari del paese della cittadina della Penisola sorrentina. Il territorio di Vico fa infatti da sfondo a tanta parte del romanzo da diventarne co-protagonista. Raffaele Lauro definisce Vico “preziosa cittadina cerniera tra due grandi attrattori turistici, l’area vesuviana, da una parte, con gli scavi di Pompei ed Ercolano, e le coste sorrentina e amalfitana, dall’altra, con paesaggi e bellezze naturali impareggiabili: ciò la rende uno dei territori più pregiati della Penisola Sorrentina”.
La “Trilogia Sorrentina” e gli occhi di Lauro sui paesaggi
“Dance The Love” conclude la “La Trilogia Sorrentina”, straordinaria celebrazione culturale e letteraria della Penisola sorrentina, una sorta di triplice omaggio di Lauro alla sua terra natale, in cui egli utilizza abilmente il cuore, i pensieri, le parole, le emozioni, le impressioni e i sentimenti di un personaggio, inventato, come Marino Correale, o reale, come Lucio Dalla e la Elvin, di fronte al fascino dei luoghi visitati, per esaltare la costiera sorrentina. Infatti, gli “occhi” dei protagonisti dei tre romanzi, il patrizio sorrentino, Marino Correale, il grande artista bolognese, Lucio Dalla, e la celebre danzatrice russa, Violetta Elvin, sono gli occhi propri di Lauro, quando celebra le bellezze naturali della sua terra, da lui esaltata quale un coacervo inestimabile di natura, storia, cultura e tradizioni popolari. Confessa Lauro: “Gli occhi di Violetta Elvin sono gli stessi occhi di Marino Correale e di Lucio Dalla. Sono i miei occhi. Non si tratta, tuttavia, di un semplice amarcord felliniano, quanto della consapevolezza che la nostra terra, da Vico Equense a Meta, Piano di Sorrento, Sant’Agnello, Sorrento e Massa Lubrense, con le propaggini dell’Isola di Capri e di Positano, rappresenta un microcosmo straordinario, fatto non soltanto di bellezze naturali, uniche e irripetibili, ma di tanti “piccoli mondi”, in equilibrio tra loro, dal punto di vista antropologico, sociologico, culturale, religioso e folcloristico. Ed esalto la civiltà di queste terre, sia contadina che cittadina, sia localistica che globale, quest’ultima attraverso la leva del turismo, nazionale ed internazionale, con radici che affondano nei secoli”. Si può parlare quindi di una sorta di “autobiografismo” nella descrizione dei luoghi dei romanzi, anche se effettivamente Lucio e Violetta hanno adorato la Penisola: Lucio scrive a Sorrento il suo capolavoro, “Caruso”, e Violetta si innamora, nel 1951, prima dei luoghi e, poi, dell’uomo della sua vita, Fernando Savarese. “La mia Trilogia Sorrentina, afferma ancora Lauro, è un dono di amore e di gratitudine, che ho voluto fare alla mia terra, affinchè le future generazioni di tutta la costiera sorrentina imparino a rispettarla e ad amarla, come hanno fatto grandi personalità, sorrentine di adozione, come Lucio Dalla e Violetta Elvin”. L’omaggio di Lauro alla sua terra natia nei romanzi è vigoroso e struggente per la passione, l’intensità e l’afflato con cui ne descrive luoghi, profumi, sapori, colori, umori e sfumature, con elevata cifra stilistica e profonda sensibilità poetica. Il tributo che Lauro ha reso a Sorrento e alla costiera sorrentino-amalfatina, con la sua trilogia, rappresenta una inconfutabile e appassionata dichiarazione d’amore: come per Violetta, “danza è l’amore”, così per Raffaele Lauro, si potrebbe dire “Penisola sorrentina (is) the love”.
Le chiavi dei romanzi della “Trilogia”
Per parlare del nostro territorio, Lauro ha scelto, in ciascuno dei romanzi della trilogia, una diversa chiave di accesso. In Sorrento The Romance, la chiave è quella della “storia” e della “fede”, in Caruso The Song quella della “musica” e della “poesia”, e in Dance The Love quella della “danza” e dell’arte in genere. E’ ricorso, in fondo, agli argomenti delle sue passioni più grandi: il percorso della sua trilogia deriva dunque direttamente dalla sua formazione religiosa, filosofica ed estetica. Filo conduttore della intera trilogia narrativa è l’Amore, che riassume tutte queste espressioni dello spirito, storia, fede, musica, danza, arte, ed è interiormente ed intimamente collegato, attraverso le vicende, umane e lavorative, dei protagonisti, alla Penisola Sorrentina. L’Amore è il simbolo ricorrente nella narrativa di Raffaele Lauro. Le “chiavi di lettura” di ciascun romanzo sono quelle che gli consentono di passare, nella narrazione, dall’amore vissuto dai suoi personaggi, nelle loro storie di vita, all’amore universale , attraverso l’intreccio tra “microstoria” e “macrostoria”, dal particolare all’universale, dall’umano al sovrumano. Lauro è capace di delineare nei suoi romanzi, con sapiente maestria, un mix di vicende umane e vicende storiche, creando un collegamento tra le vite dei personaggi, storici o inventati, col loro ricco mondo interiore fatto di reazioni agli eventi, passioni, speranze, sogni, tormenti, e la storia dell’epoca in cui sono calati, perfettamente reale, documentata, autentica, anche quando i personaggi e le storie sono di fantasia. E il collegamento tra i fatti particolari dell’esperienza di vita del personaggio e lo scacchiere storico viene dai luoghi in cui si muovono, che assurgono perciò, da semplice sfondo, a veri protagonisti della vicenda narrata. Ne consegue che i romanzi di Lauro offrono diversi livelli di lettura, in relazione al tipo di approccio culturale, di sensibilità estetica e di curiosità intellettuale di chi li legge, da cui l’accessibilità, la fruibilità e il successo, presso tutti, della sua scrittura, perché si può restare avvinti dalla storia dei personaggi come dal lirismo delle descrizioni come dal saggio storico-documentaristico del contesto ambientale. E’ sempre presente, tuttavia, l’attenzione non casuale alla promozione turistica e culturale del territorio, nonché la volontà di aprire al lettore nuove frontiere mentali, nuovi orizzonti dello spirito, nuove categorie di giudizio, fornendogli le chiavi per accedere all’universo in cui i suoi personaggi vivono le loro vite.
Il significato di “Sorrento The Romance”
“Sorrento The Romance” ha il merito di aver strappato all’oblio dei contemporanei la tragedia del sacco turco di Massa Lubrense e di Sorrento del 13 giugno 1558. Attraverso le vicende tormentate e drammatiche del nobile sorrentino, Marino Correale, personaggio frutto della inventiva di Lauro, cioè personaggio non storico, anche se manzonianamente verosimile, il romanzo sintetizza, con la conversione all’Islam e la riconversione alla fede cattolica dell’uomo, la metafora del conflitto tra Cristianesimo e Islam, che, nel secolo XVI, devastò non soltanto Massa Lubrense e Sorrento, espugnate e saccheggiate, ma l’intero Mediterraneo, conteso dalle flotte ottomane e da quelle cristiane. Se il particolare, in questo romanzo storico, è rappresentato da Marino Correale, con la sua ricerca della verità e di Dio, l’universale si identifica con la fede in Dio, il Dio Unico, il Dio Amore, al centro delle tre religioni monoteiste, la cui strumentalizzazione, per ragioni di potere, insanguina la Storia. La storia e la fede, il binomio del primo romanzo, sono un evidente rimando culturale alla formazione filosofica crociana dell’autore.
Il significato di “Caruso The Song – Lucio Dalla e Sorrento”
Da un personaggio del tutto inventato, ancorché verosimile, si passa poi, in “Caruso The Song – Lucio Dalla e Sorrento”, ad un personaggio reale, storico, Lucio Dalla, il quale è rimasto nel cuore di tutti i sorrentini e ha donato a Sorrento una melodia immortale, “Caruso”, conosciuta in tutto il mondo. Secondo Lauro, l’amore di Lucio Dalla per Sorrento, espresso, in maniera fulminante, nel suo capolavoro, è aspetto fondamentale della poetica di Lucio Dalla. Il romanzo colma una lacuna enorme della biografia dalliana e di tutti i tributi dedicati al grande artista, pubblicistici, televisivi, radiofonici, celebrativi, documentaristici e filmici, dove Sorrento è stata omessa per ignoranza, per incultura o per mancanza di ricerche accurate. Nelle biografie su Dalla, Sorrento sembra emergere, per caso e in breve, a causa di un’avaria alla barca del cantante, che lo portò a soggiornarvi nel periodo che diede luce a “Caruso”, mentre Lauro racconta con dovizia di particolari che Lucio a Sorrento è arrivato, da giovanissimo, a suonare, con i Flippers, nel Fauno Notte Club di Franco e di Peppino Jannuzzi. E si è legato, da allora, alla nostra città, per sempre, definendola, ripetutamente, “l’angolo vero della mia anima”. Sorrento e l’infanzia di Lucio sono le due grandi omissioni della biografia del grande cantante, che, in questo romanzo, l’autore recupera alla giusta dignità. Lauro nel libro svela inoltre, con profonda poesia, l’umanità nascosta, i celati tormenti e la insospettata fede religiosa del grande cantante. Il binomio universale che emerge da “Caruso The Song” è quello tra la poesia e la musica, cioè tra le espressioni più alte e sublimi della creatività umana, che Lucio riesce, nelle sue canzoni, a fondere in un processo continuo di contaminazione tra culture e mondi musicali diversi. Spiega Lauro: “Caruso rappresenta, musicalmente, in forma irripetibile, la contaminazione tra la canzone napoletana e la lirica. Sul piano poetico, il celebre tenore Enrico Caruso diviene il simbolo della dialettica tra la vita e la morte, tra Eros e Thanatos, mitigato, quest’ultimo, per un attimo, solo per un attimo, dal ricordo del successo passato e dalla bellezza della natura sorrentina”. L’avventura “dalliana” è stata intensa e costruttiva per l’autore. Per due anni, Lauro si è dedicato, anima e corpo, al rapporto tra Lucio Dalla e Sorrento, con un tour di 21 tappe, ovunque accolto da un entusiasmo vivissimo per il grande artista e per Sorrento, che ha prodotto la stesura di altri due romanzi oltre al biografico “Caruso The Song – Lucio Dalla e Sorrento”: i dialoghi “Lucio Dalla e San Martino Valle Caudina – Negli occhi e nel cuore”, e il quaderno di viaggio “Lucio Dalla e Sorrento Tour – Le tappe, le immagini e le testimonianze”.
Come nasce “Dance The Love”
Per completare la sua trilogia, dopo Massa Lubrense e Sorrento, Lauro aveva in animo di parIare di Vico Equense, paese originario dei suoi nonni materni: “Vico Equense gode di una incredibile bellezza naturalistica, che desideravo ardentemente raccontare. Tuttavia, non riuscivo ad individuare un personaggio reale, che mi conducesse per mano nella narrazione della città. Ero in difficoltà. Stavo ripiegando su un’altra invenzione, quando è avvenuto il terzo miracolo… La provvidenza! Anche se di formazione crociana, io rimango un provvidenzialista, convinto. Non è il caso, per me, che muove la storia, o le passioni degli uomini. Il primo romanzo mi è stato ispirato, di notte, nella Torre della Salvezza (nell’attuale Albergo Michelangelo di Sorrento), nella quale si salvarono centinaia di sorrentini in fuga dalle scimitarre turche. Il secondo dal ritrovamento di un biglietto autografo di Dalla, che credevo essere andato perduto, in uno dei tanti traslochi ministeriali. Il terzo dalla scoperta, anch’essa provvidenziale, dell’esistenza di una personalità artistica di livello internazionale, che vive da più di cinquant’anni a Vico Equense. In totale riservatezza. Violetta Elvin, una stella della danza mondiale”. Racconta Lauro che lei stessa gli ha fornito la chiave di lettura del romanzo, quando gli ha detto: “Nel 1951, sono arrivata qui e sono rimasta stupita dal fatto che, in uno spazio così limitato, ci fosse tutto ciò che la natura può produrre di bello e meraviglioso. Una montagna alta, con una vegetazione straordinaria, delle colline, dei borghi stupendi, un piano, questi palazzi, che sembrano arrivare fino all’orlo della costa, questa cattedrale, che li ferma e non li fa precipitare, questa costa, che pare una cattedrale gotica, questo mare, questi tramonti. In tante parti del mondo ho visto spettacoli naturali di grande bellezza, ma tanti elementi, così complessi, racchiusi in uno spazio limitato, non li ho mai visti!”.
L’articolo “The” in comune tra i titoli dei tre romanzi della trilogia
I titoli dei tre romanzi sono imperniati sull’articolo inglese “The”. Sorrento, quindi, è “The” Romance, la terra per antonomasia del sogno e dell’amore romantico; Caruso è “The Song”, la canzone per eccellenza, la melodia immortale, conosciuta in tutto il mondo; Dance è “The” Love, l’amore per l’arte e per la vita.
Il significato di “Dance The Love”
Il titolo del romanzo, “Dance The Love”, contiene le due parole chiave dell’opera: la danza e l’amore, i due poli tematici, che condensano significativamente il percorso di vita della protagonista. Il titolo è complesso da tradurre, nella sua apparente semplicità, “danza l’amore”, e si può interpretare in tanti modi, come se le due parole fossero indissolubilmente legate l’una all’altra, implicando l’una l’altra: l’amore per la danza, la danza che genera l’amore, l’amore che è espressione della danza. La grande ballerina arriva a Vico per vacanza, nel 1951, e dopo pochi anni, nel 1956, per amore decide, nel pieno del successo londinese, di lasciare la danza e sposare un vicano, conosciuto nel corso del suo soggiorno: l’avvocato Fernando Savarese. Un matrimonio d’amore, che rappresenta il filo conduttore del romanzo e che trova, nella cornice naturale di Vico Equense, il suo habitat, il suo riflesso. Il binomio tra particolare e universale in questo terzo romanzo è rappresentato dalla danza(e più in generale, dall’arte) e dall’amore. Danza, nell’opera di Lauro, è da intendersi in senso ampio, non solo come balletto, che è il punto di riferimento della protagonista e che consente all’autore di fornirci un gran numero di informazioni sulle tecniche, sui personaggi e sulle rappresentazioni più importanti nella seconda parte del Novecento, ma anche come musica, pittura, letteratura, tutte passioni di Violetta e anche di Fernando. Dunque, danza l’amore significa amore per l’arte. Ma anche amore per una persona, per la natura, per un paese, per la bellezza. L’Amore Universale. Dance The Love è dunque una grande, straordinaria, incredibile ed emozionante storia d’amore per l’arte, per la vita e per la propria terra. La danza intesa come arte e l’amore sono le componenti fondamentali nella vicenda umana e artistica di Violetta. La madre Irena dice a Violetta, nella sua prima visita in Italia: “Certo, tra la libertà, l’amore e la bellezza, tu non hai dovuto scegliere, perché qui hai trovato tutto insieme”. Sempre nel corso di questo dialogo, Irena chiede alla figlia come i suoi occhi fossero in grado di reggere tanta meraviglia, tanta abbacinante bellezza, e Violetta risponde: “Non mi è dato sapere, né mi interessa sapere. La mia parabola è stata intensa, quando ho dedicato la vita all’arte e all’amore”. Violetta diventa così simbolo di danza, di arte, di amore e di bellezza. Nella bellissima conversazione telefonica tra Violetta e Zarko Prebil, in occasione del novantesimo compleanno di Violetta, Zarko dice: “Il bilancio della tua vita si può sintetizzare in due parole, danza e amore. Tutta la tua vita è stata ed è un messaggio di amore, di tolleranza, di dialogo tra culture, tra mondi diversi. Sei stata una messaggera d’amore, sei stata un ponte, e la bellezza della tua storia è che all’amore per la danza hai sostituito l’amore per la bellezza della natura e per un uomo, il tuo Fernando. Un amore perfetto, che non avevi mai raggiunto e che inseguivi sempre, e la bellezza di questa storia è tutta in questa scelta. E’ vero che lasciasti un’arte che amavi tanto ma, dall’altro lato, amavi e rispettavi un uomo che ti ricambiava totalmente. Amare sinceramente una persona, senza fare compromessi, senza dover inseguire il tempo da condividere insieme, può diventare un’opera d’arte. Ci vuole coraggio e non tutti abbiamo avuto questo coraggio”.
Lauro e la danza
Con Dance The Love, Lauro dimostra tutta la sua passione per il balletto. Attraverso la vicenda di Violetta, vissuta in un’epoca di grandi ballerini, lo scrittore riempie il libro di notizie sui danzatori, sui coreografi, sui maestri di ballo, sui musicisti, sui compositori, sugli scenografi. Un valore aggiunto all’importanza del romanzo è inoltre un preziosissimo e corposo indice di sessanta pagine, con tantissime informazioni sulla storia del balletto mondiale, con indicazioni su nomi, ambienti e, addirittura, su strutture e rappresentazioni dei vari balletti citati, una sorta di piccola enciclopedia della danza. In una conversazione tra Violetta e il partner Ugo Dell’Ara, al Teatro alla Scala, agli inizi degli anni Cinquanta, Lauro esprime la sua filosofia sulla danza: la danza viene definita offerta di sé, fonte di energia, forza vitale del proprio corpo, da esprimere sempre, senza abbassamenti di tensione, nelle prove, nella prima, nelle repliche e, finanche, nella vita. In un’intervista, lo scrittore ha dichiarato: “La danza è vita. Farei studiare danza in tutte le scuole, a partire dalle elementari. Niente forma di più il carattere di una persona, quanto la disciplina e il rigore della danza. Con la musica, la danza rappresenta la forma d’arte più antica e più moderna”.
La copertina di Dance The Love
La copertina del libro ha importanti significati simbolici, sintetizzando le tre tappe, esistenziali e artistiche, di Violetta Elvin, attraverso le sue tre “patrie”: Mosca, Londra e Vico Equense. Infatti, la copertina mostra: la scintillante facciata del Teatro Bol’šoj, dove Violetta studia ed esordisce; il suo profilo, a Londra, mentre danza, al culmine del successo, ne “La bella addormentata”, con il Royal Ballet di Ninette de Valois e di Frederick Ashton; il panorama di Vico Equense, dove si rifugia, per amore, dopo aver abbandonato, nel 1956, il palcoscenico, quel panorama che donna Violetta ammira, da circa sessant’anni, dalla terrazza del suo palazzo. La copertina racchiude in sintesi le parole-bilancio di Violetta Elvin, riportate nel testo: “La Russia è stata la patria della mia nascita, della mia infanzia, della mia giovinezza e della mia formazione professionale, al Bol’šoj. L’Inghilterra è stata la patria della mia maturità artistica, della mia carriera e dei miei successi di danzatrice, con il Royal Ballet. L’Italia è stata la patria del mio vero amore, della mia lunga vita e della mia vicenda di donna, di moglie e di madre, vissuta nell’intimità familiare, nella serenità, nella discrezione e nella sobrietà. Quando venivo in tournée in Italia, a Milano, a Firenze, a Roma e a Napoli, nel poco tempo strappato alle prove e alle repliche, mi rinchiudevo, da sola, nei musei, nelle gallerie, nelle chiese e nelle pinacoteche. Il vincolo con l’Italia, successivamente, è stato alimentato dai mille viaggi, che abbiamo fatto, Fernando ed io, sempre insieme, per scoprire le regioni, le città, i paesi e i borghi. Ed è stato consolidato, poi, dalle bellezze naturali della costiera sorrentino-amalfitana e di Vico Equense. Se qualcuno mi chiede, scusi, lei ha avuto tre passaporti, uno russo, uno inglese e uno italiano, ma di quale nazione si sente maggiormente cittadina?, io rispondo che mi sento cittadina di tutte, perché io sono una cittadina del mondo. L’arte universale, per me la danza, trasforma tutti in cittadini del mondo!”.
La dedica di Dance The Love
Dalla dedica di Raffaele Lauro a Violetta Elvin, che apre il romanzo, si colgono i temi fondanti del libro: “A Violetta Elvin, artista splendida e donna coraggiosa, che mi ha consentito di riscoprire l’amore per la libertà, l’arte della danza e le straordinarie bellezze naturali di Vico Equense, terra di origine dei miei nonni materni, meravigliosa e incomparabile”. Dunque, la donna, l’amore, la libertà, l’arte, la danza, Vico Equense, la natura, i nonni.
La storia dei nonni cui è dedicato il libro
Nella dedica iniziale, Raffaele Lauro fa riferimento ai suoi nonni materni, originari delle colline di Vico, ispiratori del romanzo. Di loro parla in modo più esteso in un altro suo libro: “Cossiga Suite”, dedicato a suo fratello scomparso. Dei nonni ha raccontato in un’intervista recente: “Don Raffaele Aiello, un melomane, un contadino-intellettuale, un socialista alla Arturo Labriola, del quale porto il nome, e donna Giuseppina De Simone, semianalfabeta, ma energica capo-azienda familiare, detta Peppinella, ebbero tredici figli, tra i quali Angela, mia madre. Erano originari entrambi di famiglie di Massaquano: gli Aiello, contadini-proprietari, benestanti, con uno zio prete, all’epoca, molto colto e influente; i De Simone, invece, più modesti, falegnami, piccoli artigiani del legno. Dopo il matrimonio, i due si trasferirono, con il seguito dei figli, che nascevano, anno dopo anno, in un terreno da coltivare, a monte di Marina d’Aequa, successivamente in un aranceto di Sorrento e, infine, nel fondo di loro proprietà, a Migliaro, sopra la Chiesa di Sant’Agnello. Il mio omaggio a Vico Equense, tramite Violetta Elvin, vuole essere anche il mio omaggio alla terra di origine dei miei nonni materni”.
La storia della Elvin nel romanzo
Protagonista indiscussa del romanzo è la grande danzatrice russa Violetta Elvin, nata Prokhorova, vedova di Fernando Savarese, con gli intrecci e gli sviluppi, estremamente interessanti, della sua vicenda, esistenziale e artistica, lunga quasi un secolo. L’autore racconta i tre tempi della vita di donna Violetta: il tempo russo, moscovita, quello inglese e quello italiano e vicano, con appassionata ricchezza di aneddoti e particolareggiata attenzione allo sfondo storico in cui si dipanano. Il romanzo, tuttavia, non pretende di essere e non rappresenta la biografia della celebre danzatrice , piuttosto si ispira liberamente, in una forma romanzata, alla storia dell’artista, che, sullo sfondo del secondo dopoguerra, e nello scenario del suo legame, quasi sessantennale, con Vico Equense e con la costiera sorrentino-amalfitana, fa da spunto ad un romanzo storico, con notevoli squarci lirici, vibranti impennate di natura emozionale ed occasioni di riflessione filosofico-esistenziale. In un certo senso, può dirsi piuttosto un romanzo di formazione, in quanto segue la vicenda di Violetta dalla nascita alla maturazione. Precisa Lauro: “Tutti i riferimenti ai personaggi storici citati sono reali, anche se la ricostruzione dei dialoghi, le valutazioni storico-politiche e i giudizi estetici sono da ricondurre esclusivamente all’autore”. Violetta, la protagonista, ne esce col ritratto estremamente positivo di una donna vera, autentica, sincera, animata da curiosità intellettuale, voglia di scoprire il mondo, impegno, studio e sacrificio, rispetto nei valori dell’amicizia e dell’amore. La vita di Violetta Elvin rappresenta un esempio luminoso, il messaggio che nella vita è premiata la capacità di saper scegliere. Riccardo Piroddi, che in qualità di collaboratore personale di Lauro ha avuto l’opportunità di ascoltare, dalla sua viva voce, i racconti della sua incredibile vita di bambina, di artista, di donna, di moglie e di madre, l’ha definita “artista vitale, danzatrice dello spirito, donna d’amore, profetessa della libertà, oracolo dell’avvenire”. “La parabola esistenziale di Violetta, dice l’avvocato di San Martino Valle Caudina Golda Russo, nel relazionare sul libro, è una sintesi perfetta di disciplina, sacrifici, coraggio, bravura, eleganza, tenacia e amore”. Aggiunge un altro illustre relatore del libro a San Martino Valle Caudina, il prof. Cesare Azan, docente di Materie Letterarie: “Una donna straordinaria, viva e presente, in ogni momento della sua esistenza, anche quando la quotidianità di moglie e di madre le ha sottratto le luci del protagonismo della ribalta e del successo. Le stigme dolorose del Ventesimo secolo, le tirannie, le guerre, le ha vissute tutte, ne ha portato i segni indelebili, ma non è mai stata travolta dagli eventi e dalle sciagure. Fin dalla giovane età è stata un albero con radici ben piantate, esile, tenue, col suo corpo di farfalla, ma decisa, volitiva, forte, come chi si sente una predestinata. Volitiva e determinata, non ha mai smarrito la strada che le sue aspirazioni le indicavano, guidata dalla forza della sua identità interiore di donna innamorata dei valori profondi e autentici. Ha cercato sempre di realizzare, nella sua vita, la pienezza dell’amore, in tutte le forme e le dimensioni possibili. Questo sentimento l’ha guidata in ogni momento della sua esistenza, quando ha combattuto, in Russia, contro l’oscurantismo culturale, quando, in Inghilterra, si è data alla danza, con umiltà e tenacia, e infine a Vico Equense, nella dimensione intima e familiare”. Ha concluso Lauro in una delle presentazioni: “Violetta Elvin, una donna di coraggio, una donna d’esempio, una donna d’amore!”.
Il padre e la madre di Violetta
Violetta è nata e cresciuta a Mosca, in Via Arbat, con due genitori straordinari: il padre Vasilij (di cui il figlio di Violetta, Antonio Vasilij, porta il secondo nome) e la madre Irena. Orfano e cresciuto dagli zii, il padre era ingegnere, inventore, automobilista, aviatore, cacciatore, suonava il pianoforte, giocava a scacchi. Un uomo eclettico, geniale e creativo, che non beveva alcol, era ortodosso, la fece battezzare di nascosto, da un prete cattolico, sfidando il regime sovietico. Ma la cosa più importante è che il padre, appassionato di arte rinascimentale e di danza, impregnò sua figlia di queste passioni, che lei ha portato sempre con sé. Nella loro piccola abitazione, due stanze, nel clima di vita massificata ed impoverita del regime comunista, Vasilij riuscì a creare un piccolo angolo, in cui preservava e inculcava alla figlioletta tutte le espressioni della sua sensibilità verso l’arte e verso la cultura: libri, quadri, icone, mobili antichi, riproduzioni. La madre Irena, polacca, molto più giovane del marito, fu anche lei una donna di grande forza, sensibilità e cultura, molto importante per la formazione di Violetta.
La fase della Russia
Il triangolo esistenziale di Violetta si sviluppa tra la Grande Madre Russia, dopo la rivoluzione bolscevica e sotto la dittatura stalinista, la Londra della ricostruzione e l’Italia, in particolare Vico Equense, dal secondo dopoguerra ad oggi. Il particolare scenario storico entro cui inizia la vicenda umana di Violetta Elvin, come donna e come danzatrice, negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza durante la durissima formazione alla scuola del Teatro Bol’šoj, ha consentito a Lauro di affrontare, indirettamente, le grandi tragedie del Novecento, che seguirono alla prima guerra mondiale, con il radicarsi delle due dittature, nazista e stalinista, matrici del secondo conflitto mondiale e causa di milioni di morti. In particolare, la dittatura stalinista, con il suo seguito criminale di purghe, di deportazioni di massa e di persecuzioni della polizia politica, che interferirono anche sulle scelte di vita della protagonista. Violetta nasce nei giorni in cui muore il grande teorico e precursore dello stato totalitario, Lenin, cui fa seguito l’ancor più dispotico Stalin. L’apparato spietato ed invadente del regime comunista, totalitario e disumano, trova spazio nel romanzo nella percezione ossessiva, nei comportamenti timorosi e nelle reali paure dei protagonisti di essere continuamente spiati dall’onnipresente e onnipotente KGB. Dopo l’ammissione alla scuola di ballo del Bol’šoj, iniziano, per Violetta, gli anni della formazione ferrea, dell’acquisizione della disciplina, degli estenuanti esercizi alla sbarra, delle defatiganti ripetizioni infinite delle tecniche dell’arte di Tersicore. Contemporaneamente, Stalin, il “nuovo Zar”, faceva piombare la Nazione nel terrore più cupo: la paura della delazione, la cultura del sospetto, la follia del nuovo dittatore, che vedeva nemici del regime ovunque, segnarono, irrimediabilmente, la vita di Violetta. Violetta non dimenticherà mai del tutto il senso di paura e di angoscia che, costantemente, viveva in quegli anni. Il regime totalitario sovietico, impregnato di una cultura spionistica e di un sistema di controllo che non solo vietava di esprimere le proprie opinioni, ma arrivava a reprimere persino la libertà artistica, la libertà di creare la musica e la danza, perché tutto doveva essere piegato alle finalità della propaganda bolscevica e al culto della personalità del dittatore georgiano, ha reso per Violetta i suoi primi vent’anni il periodo più difficile della sua vita. La donna ha sviluppato quella che Lauro definisce più volte nel libro “sindrome del KGB”, che ancora oggi l’attanaglia, vittima di un senso di prudenza e di timore, al punto da chiedere all’autore di omettere, nella stesura definitiva del romanzo, le parti che si riferivano a considerazioni sul regime. Ad ogni modo, nel libro, lei dichiara di essere grata anche a Stalin, il quale le diede il permesso di espatriare, dopo aver sposato, in prime nozze, un addetto dell’ambasciata britannica a Mosca, Harold Elvin, cui deve il suo nome d’arte in Europa. Sorridendo, ha, poi, raccontato di aver ballato sulla testa di Stalin, in quanto, sia Hitler che il dittatore russo si nascondevano in bunker sotterranei, privi di luce, costruiti sotto i teatri d’opera. La protagonista riuscì a sfuggire al regime stalinista attraverso uno straordinario viaggio verso la libertà con il primo marito, non scevro di difficoltà burocratiche e senso di avventura: Mosca, Leningrado (San Pietroburgo), Helsinki, Oslo e, infine, Londra. Un viaggio costellato da incontri importanti, come la partita a scacchi con il compositore Šostakovi?, e la conversazione, a Helsinki, con l’architetto Aalto, sul tema del genio creatore di Leonardo.
La fase londinese
A Londra, assunta al prestigioso Royal Ballet, Violetta inizia un trionfale decennio, dal 1946 al 1956, nel corso del quale diventa una delle stelle, a Covent Garden, del Royal Ballet, con tournée di successo nei maggiori teatri del mondo, esprimendo in pieno la magnificenza del suo talento di danzatrice, fino a toccare punte altissime di perfezione coreografica e maturità scenica. Amorevolmente assistita da Ninette de Valois, Madam Ninette, direttrice del Royal Ballet, Violetta Elvin diventò oggetto di adorazione dei loggisti londinesi e dei fans del balletto di tutto il mondo. In Italia, si è esibita alla Scala di Milano, alla Fenice di Venezia, al Teatro Comunale di Firenze, al Teatro dell’Opera di Roma e al San Carlo di Napoli. Ha incontrato i grandi protagonisti della musica e della danza mondiale, compositori come ?ajkovskij, Šostakovi? , Stravinskij, coreografi come Marius Petipa, Léonide Massine e Frederick Ashton, scenografi come Picasso, ballerine come Margot Fonteyn (con la quale la stampa montò la vicenda della presunta rivalità), Anna Pavlovna Pavlova, e Moira Shearer, ballerini come Vaslav Nižinskij, Michael Somes e Rudolf Nureyev. In Inghilterra cambiò il cognome russo Prokhorova, un po’ complicato da pronunciare per gli inglesi, in Elvin, come il primo marito, che la condusse a Londra. La parabola artistica della ballerina sembra lo stupefacente frutto dell’invenzione di uno scrittore: Violetta bambina, a soli sette anni, sulle ginocchia del padre, l’uomo che le impresse il crisma dell’amore per il bello, declinato in ogni suo aspetto, dal balletto alle opere del Rinascimento italiano, assiste, nel tempio della danza classica, il Teatro Bol’šoj di Mosca,per la prima volta, alla rappresentazione de “La bella addormentata” di ?ajkovskij, che segna il suo destino di ballerina, perché in quel momento nasce il sogno di danzare e in quel teatro si diploma anni dopo, mentre la sera dell’addio alla danza, balla, a Covent Garden a Londra, come sua ultima interpretazione, proprio “La bella addormentata”, a chiusura della sua fulminante carriera.
Violetta e Vico
L’incontro “d’amore” di Violetta con Vico Equense, all’inizio degli anni Cinquanta, e con Fernando, apre ed inaugura il terzo tempo della vita dell’artista, che la porterà ad operare quella che, nel romanzo, viene definita la “scelta per amore”, che segna la fase della discrezione, del silenzio, della presenza elegante, della piena maturità di donna, sposa, madre. L’approdo di Violetta a Vico Equense è come il culmine delle complesse vicende storiche e umane che l’hanno fatta viaggiare per tutta Europa, a partire dalla Russia, come in una catarsi spirituale ed emozionale. L’Italia era già nel cuore di Violetta, sia perché suo padre le aveva sempre raccontato storia, arte e cultura del nostro Paese, sia perché lei, in Italia, durante le tournèe, aveva visitato musei, gallerie e monumenti. Non avrebbe mai pensato, tuttavia, che sarebbe venuta a vivere per sempre in Italia. Il rapporto tra Violetta Elvin e Vico Equense, che diviene la sua terza patria, dopo Mosca e Londra, rappresenta il passaggio chiave del romanzo. Vico costituisce infatti il momento cruciale della vita di Violetta Elvin: all’apice del successo professionale, poco più che trentenne, passa dall’amore per la danza all’amore per la vita, all’amore per una persona e per una terra. Un segno, questo, di lucida saggezza, quasi profetica, emblematica della sua capacità di scegliere ciò che più era in sintonia con le aspirazioni intime del cuore, al di là di calcoli di opportunità o influenze di giudizi esterni. Violetta viene letteralmente “stregata” da Vico Equense. Vi giunge, per la prima volta, nel 1951, nel pieno del suo successo artistico, per un breve periodo di riposo dalle tournèe, col marito, col quale tuttavia il rapporto sentimentale era già sopito, e una coppia di amici inglesi. Donna Violetta ricorda benissimo l’impatto con Vico Equense, la prima volta che vi giunse. Non avrebbe mai immaginato, allora, Violetta Elvin, che Vico Equense sarebbe diventato il luogo definitivo, in cui avrebbe trascorso il resto della sua esistenza, abbandonando la danza per amore di Fernando Savarese, e risiedendo a Palazzo Savarese, Villa Maria, sul Corso Filangieri. Era un paese allora che, con fatica ed energia, si riprendeva dalla guerra. Intravide piazza Umberto I e la fontana, dal finestrino del pullman, che si fermò proprio sulla piazza. Scese per prima, molto impaziente di scoprire il posto che le era stato consigliato da un’agenzia di viaggi londinese per questa breve vacanza non estiva, di relax, in una località amena del Sud d’Italia. La ballerina ricorda ancora oggi, con affetto, alcuni ragazzini e tre donne, che le si avvicinarono, quasi con timore, per chiederle l’elemosina. La guerra era terminata da sei anni, ma l’indigenza era ancora tanta, per cui qualunque straniero arrivasse a Vico Equense, rappresentava una possibile risorsa, seppure di pochi spiccioli. Donna Violetta ha confessato a Raffaele Lauro di non aver mai dimenticato quei volti sofferti. L’artista rimane a Vico solo una decina di giorni, ma le bastano per cambiarle la sua vita per sempre. Alloggia all’Hotel Aequa ed esplora la città, dalla cima del Faito alla Marina d’Aequa, innamorandosi della terra vicana. Nessuno, a Vico Equense, si rese conto durante la vacanza del 1951, della presenza di quella stella della danza internazionale, prima ballerina della prestigiosa compagnia del Royal Ballet di Londra. Nessuno, tranne il giovane Fernando Savarese, rampollo di una delle più importanti famiglie del posto, che la notò, e con il suo charme e la sua amabilità, riuscì a catturare questa donna, coinvolgendola in un legame duraturo, interrotto solo dalla sua morte. Una storia d’amore intensa e poco conosciuta a Vico Equense, senza clamore, vissuta con atteggiamento riservato e discreto, nella propria dimensione familiare, con la sensibilità di una grande ballerina, che, protagonista della danza mondiale, dopo aver viaggiato tutto il mondo sotto le luci della ribalta, gli applausi, si è ritirata e Vico, in una terra straniera che, comunque, l’ha protetta e rispettata con discrezione, per trovare la sua più autentica dimensione di vita. Tra Violetta e Vico, prima ancora che tra Violetta e Fernando, fu un colpo di fulmine. Violetta rimase subito affascinata da tutti gli aspetti di Vico, s’innamorò della Marina d’Aequa, delle borgate, dei casali, ma soprattutto fu molto attratta dalle montagne: il Monte Faito e il Monte Comune. Come racconta Lauro nel libro, insieme con le persone che erano con lei, Violetta si dedicò subito a due importanti escursioni in montagna: la prima sul Monte Faito, a 1.131 metri di altezza, la seconda sul Monte Comune, a 642 metri di altezza. Il gruppo fu accompagnato sul Monte Faito da un anziano autista dell’Hotel Aequa, con una sgangherata automobile anteguerra, che sembrava dovesse perdere pezzi ad ogni curva, fin dove la strada rotabile lo consentiva. L’ascesa alla cima del Faito e al belvedere, dal quale il gruppo avrebbe goduto di un panorama mozzafiato, indimenticabile, non fu agevole, ma, immersa nella ricca e verdeggiante flora del Faito, tra un succedersi di faggi, pini, abeti, cipressi, lecci, carrubi, allori ,castagni, felci, agrifogli, e arbusti di ontàno, roverella, mirto, lentisco, corbezzolo, tino, , erica, cisto, rosmarino, ginestra, Violetta rimase affascinata e completamente rapita dal cangiare continuo delle prospettive del Golfo di Napoli e di quel mare, che, da sopra quei mille metri di altezza, sembrava congiunto al cielo. Una delle scene più potenti del libro, poi, è quella di Violetta sul Monte Comune, così realistica e spirituale insieme, che Lauro l’ha definita “il cuore misterico” del romanzo. Lassù Violetta, grazie alle parole del vento, ritrova sé stessa. Non a caso volle rimanere sola, finalmente sola con se stessa, in mezzo a quel paradiso terrestre, per riempirsi gli occhi, la mente, il cuore e, persino, l’anima di quel miracolo della natura, così soavemente descritto da Lauro nel libro, di quella luce cangiante, di quella cascata di colline, ora verdi, ora brulle, che precipitava verso il basso, si articolava lungo la costa alta, si distendeva sul piano, si impennava sul crinale, fino a precipitare verso la Punta della Campanella, inabissandosi nel mare azzurro, per riemergere dalle acque, nel profilo controluce di Capri e dei Faraglioni. Lauro immagina che lo sguardo di Violetta, in pochi minuti, ripercorse in quel frangente milioni di anni, l’intera storia della vita dell’umanità, in un turbinio di emozioni che le dettarono le sue scelte di vita. Le parole usate da Lauro per narrare questa scena sono un raro affresco di incanto naturalistico e poetico, un’estasi visiva e filosofica che in poche righe condensa il mistero della vita: “Il grande cratere di fuoco, il prevalere delle acque, il consolidarsi di quell’armonia, un’opera d’arte, che anche il più convinto agnostico avrebbe faticato a non definire divina. Da quel punto di osservazione del mondo l’epopea della vita, la nascita di Venere pagana, che emerge dalla spuma delle onde, e il destino dell’umanità, tutto diventava più chiaro, intuitivamente, senza avere più bisogno di spiegazioni”. La giovane Violetta, in quel momento, decide di riprendere in mano la propria vita, di darle una nuova forma e una nuova direzione. Un nuovo inizio, quindi, una palingenesi. Spiega Raffaele Lauro: “il fascino della montagna, coperta, sulla sommità, da un intrico di flora centenaria, profumata, nelle selve, da fiori sconosciuti e diffusa, dappertutto, come un mantello protettivo, da una macchia mediterranea, che si rinnova senza tregua; l’armonia digradante delle colline, il cui sorriso si disvela, anche all’occhio più distratto, nella luce abbagliante del sole o nel tenue chiarore della luna; il piano, che sembra, con i suoi palazzi signorili e le sue chiese, scivolare lentamente verso l’orlo estremo, indugiando, per un attimo, solo per un attimo, davanti allo spettacolare Golfo di Napoli; la costa alta, scolpita, nei secoli, dall’impeto dei venti, dalle acque piovane, dai rivi defluenti e dai marosi, che si tuffa, come le fondamenta di una cattedrale gotica, nell’azzurra profondità delle acque marine, nascoste, talvolta, in grotte misteriose o pullulanti intorno a scogli solinghi. Le emozioni che travolgono Violetta Elvin, su Monte Comune, le consentono di ritrovare la strada della propria libertà e di riappropriarsi delle proprie scelte di vita, come donna e come artista. In un lasso di tempo limitato, rivive in lei, nei suoi occhi e nel suo cuore, l’origine del mondo, il destino dell’umanità e il mito dell’Alma Mater. Mi sono commosso a scrivere quelle pagine!”. Dopo le montagne, Violetta riuscì anche a visitare le frazioni, ma solo poche. Quando si trasferì definitivamente a Vico Equense, però, le percorse tutte, più volte, una dopo l’altra, borgo dopo borgo, che Lauro così ricorda nel libro: “la suggestiva Pietrapiana; l’antica Bonea, a ridosso del centro cittadino; Sant’Andrea, arroccata sui clivi del monte; San Salvatore, raccolta intorno alla chiesa; la placida Massaquano, piena di noceti; Patierno, rinomata per i molti caseifici; la stessa Monte Faito, verde e rocciosa; Moiano, dalle origini leggendarie; Santa Maria del Castello, sospesa sul crinale tra Vico Equense e Positano; Ticciano, ricca di uliveti e di frutteti; Preazzano, terra della celebrata melanzana; Arola, estesa e arroccata insieme; Alberi, la frazione-balcone, con la vista proiettata sulla costiera; Pacognano, vocata alla preghiera; Fornacelle, inventrice, a Natale, del presepe vivente; l’aristocratica Montechiaro, e, infine, più avanti, verso Sorrento, l’orgogliosa Seiano, piccolo regno nel regno, quasi un mondo a sé stante”. Anche Marina d’Aequa sarebbe diventata una location amatissima da donna Violetta. Dal primo giorno di soggiorno a Vico Equense, Violetta aveva espresso il desiderio di voler immergere i piedi in quel mare incantevole, per lei irresistibile, che trascolorava dal verde al cilestrino, dall’azzurro al blu, fino al turchese. Il mare, per Violetta, fin dall’infanzia aveva assunto un significato magico, purificatorio, quasi catartico. Come ricorda nel romanzo, alle obiezioni degli amici replicava: “La temperatura primaverile non consente di fare il bagno, di nuotare, di esplorare qualche grotta misteriosa, da me intravista sotto l’alta costa, a sfioro sulla superficie delle acque? Bene! Ma almeno i miei piedi possono ben sfidare il freddo. Sono stata abituata ad altro freddo!”. Così, a piedi nudi, arrivata sulla spiaggia di Marina d’Aequa, Violetta cominciò a saltellare tra le piccole onde che si allungavano sulla battigia: rideva, canticchiava, come una bambina sfrenata nei movimenti. E così, a piedi nudi nell’acqua, Violetta accennò ad una suggestiva danza sulla riva, con l’immagine della Venere di Botticelli negli occhi e la musica de “Lo Schiaccianoci” di ?ajkovskij nelle orecchie. La spiaggia era deserta, ma chi avesse potuto vederla, avrebbe scambiato la donna per una matta. La leggera gonna di Violetta, pur tenuta sollevata con le mani, era ormai zuppa, i capelli scomposti. La donna, stremata, esausta, ma visibilmente felice, si accasciò, infine, sui piccoli ciottoli asciutti. Mai avrebbe immaginato che su quella spiaggia avrebbe trascorso, con Fernando, una vita intera di mattinate e serate bellissime. Infatti, racconta Violetta attraverso la penna di Lauro, Fernando e Violetta amavano fare il bagno di mare di prima mattina o, talvolta, al tramonto, quando la Marina d’Aequa era o tornava ad essere un’oasi di pace, tutta per loro, in compagnia soltanto dei gabbiani, dei bagnini che sistemavano gli ombrelloni o dei pescatori, che approdavano, sulla spiaggia, per prelevare il pescato, ancora impigliato nelle reti. Il senso del legame profondo tra Violetta e Vico Equense è nel fatto che la ballerina si innamora non solo dell’uomo della sua vita, ma di un intero paese, che elegge a “suo”. Nel racconto dell’amore di Violetta per Vico Equense, il paesaggio naturale e quello umano si confondono, si compenetrano e si nutrono a vicenda, in una felice osmosi. E da ciò scaturisce la scelta coraggiosa, di lasciare la danza e andare a vivere, lei abituata alle grandi capitali, in un paese della provincia italiana poco conosciuto ai Russi all’epoca. A tal proposito Violetta racconta sempre un gustoso aneddoto: “Quando ho inviato il telegramma a mia madre per informarla di aver lasciato Londra e di essere andata a vivere nel Golfo di Napoli, a Vico Equense, non ho avuto risposta per alcuni giorni, fino a quando, una sera alle 23.00, bussò vigorosamente alla porta di casa nostra il postino di Vico Equense, allora, a Vico, c’era solo un postino, che si chiamava Robertino. Quando ci disse: Avvocato, c’è un telegramma da Mosca, io temetti che, se qualcuno aveva mandato, a quell’ora, un telegramma, era successo qualcosa di grave. Aprii il telegramma e trovai scritto: Ma dove sei finita? Ho guardato molti libri nelle librerie di Mosca. Non c’è Vico Equense nel Golfo di Napoli!”.
Violetta e Fernando
Dance The Love celebra una storia d’amore bellissima, quella tra Violetta e Fernando. Figlio di una ricca e benestante famiglia vicana, giovane di profonda cultura, modi aristocratici e disinvolto savoir-faire, Fernando Savarese rappresenta, per Violetta, l’amore assoluto, il punto di riferimento di una vita e per la vita. Fernando amò Violetta di un amore travolgente e passionale e ne fu ricambiato. Per questo amore Violetta non esitò ad abbandonare, contro il parere di tutti, una carriera in piena ascesa, e a cambiare radicalmente stile di vita. Fernando seppe attenderla tutto il tempo necessario, come presagendo l’ineluttabilità di quel legame che li avrebbe uniti per sempre. La forza, la profondità di questo sentimento rappresentano la chiave di lettura della storia dell’artista. Le sue scelte sono state fatte sempre e solo per amore. Amore per la danza, per il bello, per l’arte, per la natura, per il suo uomo. Scrive Lauro: “quell’amore era pronto a fare scelte radicali, prima di allora neppure immaginate, come rinunziare persino al successo, agli applausi, alla fama, all’arte, nel convincimento che una bella storia d’amore rappresentasse, essa stessa, per chi la vive, un’opera d’arte”. Quell’amore, dice Lauro, fu “un atto di follia creatrice”. Di questo potente e sublime sentimento, anni dopo, a Vico, Sir Ashton dice a Violetta, nel romanzo: “La felicità è come un treno che passa. Se non sali in tempo perché sei distratto o pensi ad altro, il treno non torna più. Tu, Violetta, sei salita su quel treno della felicità in tempo, a differenza di tanti altri, di tutti noi”. Una donna, la quale, all’apice della carriera e del successo, lascia tutto per un uomo e per una terra lontana, incarna al meglio un ideale romantico, un esempio di amore sublime. Nicola Di Martino, presidente dell’Associazione Culturale “La Fenice”, ha definito la loro storia d’amore: “una fiaba classica, eterea, diafana e incredibilmente bella, una vera fiaba d’amore. L’amore che muove e determina tutto, con una protagonista, Violetta, che interpreta, da inimitabile artista, la pièce teatrale della sua vita”. Violetta e Fernando hanno dedicato la loro vita l’uno alla cura dell’altra, hanno avuto un figlio meraviglioso che ha consolidato ulteriormente il loro legame, hanno condotto un’esistenza intensa tra Vico Equense e i loro continui viaggi, ricca di amicizie e di frequentazioni importanti. Il jet set londinese diventò di casa a Villa Savarese, e Vico Equense meta dei loro tanti amici internazionali.
La famiglia Savarese
L’incontro con Fernando Savarese unisce in Violetta l’amore per i luoghi con quello per un uomo, ma anche per un popolo, e una famiglia di quella terra, quella del suo uomo. I Savarese, ha detto Raffaele Lauro in un’intervista, sono “una famiglia straordinaria, eccezionale, dal punto di vista umano e sociale, nonché imprenditoriale. L’iniziale attività economica della famiglia Savarese era collegata alla titolarità di una concessione demaniale, a Vico Equense, dietro la Marina d’Aequa, per lo sfruttamento di una grande cava di pietre, utili a realizzare scogliere frangiflutti, a protezione dei porti, che, nella ricostruzione post-bellica, si andavano a realizzare, numerosi, nel Mezzogiorno. L’attività imprenditoriale, quindi, si svolgeva, sotto la rigorosa guida del padre di Fernando, Antonio, tra la cava di Vico Equense e il porto di Napoli, donde grandi pontoni in legno trasportavano i materiali alle diverse destinazioni. I cinque figli maschi affiancavano il capostipite, nelle diversificate attività economiche, per proseguirle, ampliarle e consolidarle, anche tramite la successiva generazione dei nipoti: Nino, l’architetto, il quale costruì sulla costiera, tra Castellammare di Stabia e Vico Equense, lo splendido complesso alberghiero-balneare di “Capo La Gala”; Luigi, il quale fu eletto sindaco di Vico Equense; Fernando, il quale diventò l’amministratore delegato della società, che costruì e gestì il lussuoso resort “Le Axidie”, alla Marina d’Aequa, con la preziosa collaborazione dei fratelli Giuseppe e Raffaele. Inoltre, la famiglia Savarese si alleò con gli storici armatori Aponte di Sant’Agnello per realizzare una nuova compagnia marittima, la Navigazione Libera del Golfo, destinata ai trasporti di uomini, mezzi e merci nel golfo, tra Napoli, Ischia, Procida, Capri e Sorrento. Per me è stato un vero privilegio celebrare questa famiglia, la quale, insieme con tante altre, a Vico Equense, a Meta, a Piano di Sorrento, a Sant’Agnello, a Sorrento e a Massa Lubrense, ha contribuito alla crescita economica e civile della nostra costiera, avviando generazioni di giovani nel comparto turistico”.
Il figlio, Antonio Vasilij, detto Toti
Dice di lui Lauro: “Antonio Vasilij Savarese ha ereditato, dalla madre, l’eleganza e il tatto e, dal padre, la concretezza. Forte di una solida e prestigiosa educazione scolastica, conseguita nei migliori college della Gran Bretagna, ha acquisito una formazione di alto profilo, che gli è stata molto utile quando ha deciso di rientrare in Italia e di dedicarsi, come il padre, all’attività alberghiera. Toti non ha fatto mai mancare ai genitori, così speciali e così fuori dal comune, il suo affetto filiale, la sua dedizione e la sua riconoscenza, che si manifestarono, in particolare, quando assistette il padre Fernando, nel corso della malattia, e quando confortò la madre Violetta, alla scomparsa dolorosissima del marito”.
Lauro “stregato” dalla Elvin
Lauro ama l’archetipo femminile, che domina tutta la sua opera narrativa, tanto che ha sempre affermato di considerare la donna l’unica strada per la salvezza del mondo. Violetta Elvin incarna al meglio l’ideale di femminilità dell’autore, che è rimasto stregato dalla sua personalità, come egli stesso racconta: “Ho avuto il privilegio e l’onore di incontrare questa grande donna. Ha condotto una vita riservatissima e mi ha permesso, attraverso le nostre conversazioni, di conoscere il suo universo mondo. Ecco perché, la dedica a lei non è una dedica formale, è una dedica di sostanza, perché donna Violetta, effettivamente, mi ha fatto scoprire l’amore per la libertà. Tutta la sua vita è un inno alla libertà, e non soltanto perché lasciò l’Unione Sovietica, il regime stalinista, e arrivò nell’Inghilterra del dopoguerra, governata, dopo Churchill, dai laburisti. Non soltanto per questo, piuttosto perché nella sua vita di artista, come nella sua vita di donna, ha operato sempre scelte di libertà. La scena sul Monte Comune, in cui donna Violetta guarda, dall’alto, lo strapiombo dei Monti Lattari verso la Punta della Campanella, che si immerge, poi, nelle acque e riemerge con l’Isola di Capri, è una scena panica, primordiale. Il cratere dove si è creato il grande vuoto, riempito, poi, d’acqua marina, origine del Golfo di Napoli, è il ventre della madre, è il ventre dell’Alma Mater. Quella visione di donna Violetta l’ho immaginata, pur interpretando il suo amore per la natura, non come un estetismo decadente, non come paesaggismo, ma come consapevolezza di ciò che la natura ci dà e che della natura va rispettato. Poi, lei esprime l’amore per l’arte della danza, che è bellezza e rigore, come le diceva il grande Massine, che le insegnò il rigore e le impose disciplina ferrea, per consentirle di sostituire, in pochi giorni, Margot Fonteyn ammalata, e trionfare, nella prima de ‘Il cappello a tre punte’, all’Opera House di Covent Garden”. L’ha conquistato, donna Violetta, nei quattro incontri per la stesura del libro, con il suo garbo, la sua delicatezza, la grazia, la bellezza, di una gran signora di novantatre anni. Ricorda ancora Lauro: “Una donna straordinaria, la quale, quando salivo le scale di Palazzo Savarese, quasi sospinto da Riccardo, perché quelle scale sono molto erte, dal ballatoio più alto, mi raccomandava: Senatore, vada piano!”. Incantato dall’intensità della sua storia personale e dall’arguzia dei suoi pensieri, Lauro ha dichiarato: “Questo terzo romanzo della mia trilogia, dedicata alla mia terra natale, celebra, in maniera esplicita, una grande artista, ma, in primis, una figura di donna coraggiosa, amante della libertà e curiosa del mondo, della natura e dell’arte. Arte intesa come l’espressione più alta della creatività umana: nella musica, nella pittura e nella danza. Potrei definire donna Violetta come un personaggio rinascimentale, con lo sguardo rivolto al futuro nella consapevolezza del passato. Le doti, che mi hanno stregato, le derivano, geneticamente, dal padre, un pilota di aerei ed inventore. Donna Violetta, a novantatre anni, rimane una donna affascinante, dotata ancora di quell’allure, proprio dei grandi artisti. Quel misto di semplicità e di eleganza, che la rende, ancora oggi, così particolare e così agréable, sempre sorridente e, tuttavia, sfuggente, quasi avvolta nel mistero. Ho scoperto non soltanto una grande artista, dalla classe immutabile, dopo quasi sessant’anni, ma anche una donna magnetica, affascinante, charmante, raffinata, colta e appassionata, ancorché con una vita riservata e sobria. Solo da poco tempo, qualcuno, in Penisola, ha scoperto questa magnifica e gratificante presenza, anche se credo che il 99% dei vicani ignorasse del tutto, prima del clamore di questo romanzo, chi fosse Violetta Elvin. I suoi ritmi biologici sono oggi gli stessi dell’epoca d’oro: donna Violetta, a novantatre anni, è rimasta un’artista, che non esce di casa prima delle otto di sera, non riceve nessuno prima delle cinque di pomeriggio. Il suo sancta sanctorum personale è la sua camera da letto. Un santuario della memoria. La camera da letto di una donna russa è un museo vivente della sua vita e della sua storia. Donna Violetta si è mantenuta così giovane perché, a Palazzo Savarese, non ha mai utilizzato, in sessant’anni, un ascensore. Sale e scende, a piedi, le quattro rampe di scale, due volte al giorno, da sola, e passeggia tutte le sere, anche quando diluvia su Vico Equense. Stupisce come segua ancora tutto: la danza contemporanea, la politica e le vicende mondiali. Mantiene relazioni telefoniche con i suoi pochi colleghi superstiti, gli ammiratori londinesi e i giovani artisti. Anche se il mio romanzo non è e non vuole essere la biografia ufficiale di Violetta Elvin, trova ispirazione nella sua vita di artista e di donna. L’intatta bellezza muliebre e la sorprendente grazia di questa donna, a più di novant’anni, associata ad un approccio sensibile e ad un portamento regale, diventano un nulla di fronte alla sua bellezza interiore”.
Il lavoro dietro il romanzo
Come era già avvenuto per agli altri romanzi de “La Trilogia Sorrentina”, “Sorrento The Romance – Il conflitto, nel XVI secolo, tra Cristianesimo e Islam” e “Caruso The Song – Lucio Dalla e Sorrento”, anche questo è il risultato di una lunga meditazione, di una puntuale ricerca e di approfondite indagini storiche. La vicenda di Violetta Elvin, che copre il secolo breve e si proietta nel 2000, è locata in un contesto storico, politico e ideologico, che viene ricostruito con scrupolo, rigore documentario e passione. Il prof. Lauro e il suo collaboratore Riccardo Piroddi, con l’aiuto dell’intellettuale vicano Salvatore Ferraro, hanno lavorato alacremente affinchè la documentazione fosse quanto più ampia possibile. Le interviste live a donna Violetta, tenute eccezionalmente a Palazzo Savarese, affascinanti e preziose per l’autore per cogliere tanti eventi sconosciuti e mai rivelati alla stampa, sono state integrate da ricerche storico-politiche, documentazione sulla storia del balletto, specie russo e inglese, biografie dei grandi personaggi storici, da lei incontrati, testimonianze di altri protagonisti, tra le quali, quella, essenziale, del figlio Antonio Vasilij, chiamato dalla madre affettuosamente Toti. Dichiara Lauro: “Prima di ottenere il privilegio di incontrarla, di persona, in più volte, nella residenza di famiglia, a picco sul mare, a Vico, e di conversare amabilmente con lei, per ore ed ore, ho studiato a fondo tutto quanto fosse disponibile sul web e nelle pubblicazioni sul balletto, sui grandi coreografi e sui maggiori compositori, a partire da ?ajkovskij. Donna Violetta mi ha ricevuto per intervistarla in moltissime ore di registrazione, nelle quali è conservata la memoria storica di una straordinaria vicenda umana e artistica. E’ stata la prima volta in cui, insieme con Riccardo, l’unico ammesso alle registrazioni, donna Violetta ha raccontato la sua storia. Glielo hanno chiesto giornalisti, cultori, storici della danza, ma lei ha sempre rifiutato, in nome di quella vita discreta e di quel timore del KGB, una vera e propria sindrome, che non l’ha mai abbandonata. Ascoltandola, fin dal primo colloquio, tutto quanto avevo studiato si è ridotto a poca cosa, a polvere, di fronte alla travolgente ricchezza, alla geniale vivacità e all’irresistibile fascino del suo racconto. Agli inizi era quasi diffidente, nonostante il figlio Antonio e l’amico Salvatore Ferraro, che non cesserò mai di ringraziare, mi avessero accreditato, con benevolenza, presso di lei. Poi, ha compreso il mio ammirato stupore, talvolta emozionato. Mi ha così condotto, con garbo tutto femminile, nei giardini incantati di una storia meravigliosa, unica, irripetibile, fatta non solo di trionfi, di bellezza e di amore, ma anche di scelte drammatiche e di paure, indotte da un regime comunista, spietato e violento. Questa resterà l’esperienza più affascinante ed emozionante della mia vita, dal punto di vista emotivo e intellettuale, pur avendo conosciuto, da vicino, molte personalità di rilievo, del mondo della cultura, della politica e delle istituzioni”.
Violetta e la costiera sorrentino-amalfitana
Il radicamento affettivo di donna Violetta nella costiera sorrentino-amalfitana non si limita a Vico Equense, ma si estende a tutta la zona, e all’intera Italia, con il suo patrimonio di beni artistici, nutrito, fin dall’infanzia, a Mosca, dai racconti del padre, poi coltivato da lei, nel corso delle tournèe, nei principali teatri italiani, in particolare a Firenze, e consolidato nei frequenti viaggi in tutto il nostro Paese, con il marito Fernando Savarese, dopo l’abbandono delle scene. Naturalmente, Vico Equense occupa il posto centrale, per la scelta di vita fatta, ma l’amore di quest’artista straordinaria per la nostra terra si estende, per ragioni diverse, a Massa Lubrense, a Sorrento, a Positano e a Capri. Di Massa Lubrense, ci informa Lauro, donna Violetta ama in modo particolare la Chiesa di Santa Maria della Neve, perché vi fu celebrato il suo matrimonio cattolico con Fernando, che in quel cimitero riposa. A Sorrento, Violetta è molto legata, racconta Lauro, come tutti i Russi, al monumento-sepolcro, al cimitero comunale di Sorrento, del pittore paesaggista russo Sil’vestr Feodosievi? Š?edrin. A Positano e a Li Galli, è legata per esservi stata ospite del grande coreografo russo, Léonide Massine, che comprò gli “scogli” de Li Galli, nel 1924, dalla famiglia positanese dei Parlato, per 300.000 lire, intendendo farne un centro mondiale della danza. Nel romanzo Lauro descrive una giornata trascorsa su Li Galli da Violetta con Massine e con Charles Forte, il grande imprenditore alberghiero italo-britannico. Infine Capri: quando la madre di Violetta, Irena, venne in viaggio in Italia, negli anni Sessanta, la figlia passò con lei una splendida giornata a Capri, nei luoghi frequentati da Gor’kij e altri celebri artisti russi.
Le donne del romanzo
Ciò che risalta in questo suo ultimo lavoro, come in tutta la narrativa di Raffaele lauro, è il ruolo simbolico, e per certi versi salvifico, che lo scrittore attribuisce alla figura femminile, quasi l’archetipo che salva il mondo, come scriveva, già un decennio addietro, il critico letterario Patrizia Danzè: “Nelle opere di Lauro si assiste al trionfo della donna, non di una donna astratta, ma concreta, sia essa madre o nonna, moglie o figlia, amica o amante, e, persino, Madonna, mai disgiunta dal suo destino di salvatrice del mondo”. Dance The Love è, più esplicitamente degli altri, un romanzo “tutto al femminile”. “Questo romanzo, ammette l’autore, celebra la grande figura di donna Violetta, ma racconta anche delle altre donne che incontra nel suo straordinario percorso di vita”. Colpiscono in particolare due episodi, legati a due figure femminili importanti nella storia di Violetta, descritti con un tocco di grande letteratura, senza indulgere al pietismo o al sentimentalismo: quello della piccola Zina Bar?šnikova, quando, la protagonista, bambina, scopre di vivere in un crudele regime dittatoriale, in quanto la compagna di studi Zina, una mattina, si presenta in classe e annunzia che non sarebbe più ritornata a scuola, perché i genitori sono stati arrestati e confinati in Siberia, e quello di quando Violetta legge alla madre Irena, in visita in Italia, la lettera sull’arte rinascimentale, censurata dal KGB, una sorta di “risarcimento” morale, a distanza di anni, da donna a donna, da madre a figlia. Zina e Irena sono due donne vittime del regime, figure femminili dolenti, che, paradossalmente, esaltano il coraggio avuto da Violetta. Colpisce anche il senso di appartenenza che le maestre di ballo inculcavano alle giovani allieve della scuola di ballo del Teatro Bol’šoj, per cui la danza diventava, per loro, una possibilità di riscatto femminile, sul piano personale e sociale, l’unico possibile in quel tipo di società ottusa e prevaricatrice. A Londra poi avvengono due incontri significativi, con due donne eccezionali: Ninette de Valois e Margot Fonteyn. Tra la direttrice del Royal Ballet, Ninette de Valois, e Violetta, racconta Lauro nel romanzo, si crea, immediatamente, una solidarietà femminile, prima che artistica. Ninette protegge Violetta, senza mai favorirla, ma viene ricompensata con la serietà professionale e la disponibilità della giovane danzatrice russa. Tra Margot Fonteyn e Violetta, nonostante la presunta rivalità, inventata dai giornali inglesi, non vengono meno mai il rispetto e la stima reciproci. Le espressioni di congedo, rivolte a Violetta, nel giorno dell’addio alla carriera, dalla de Valois e dalla Fonteyn, confermano come la solidarietà femminile abbia contribuito all’inserimento di una straniera, peraltro russa, nel complesso mondo anglosassone. I dialoghi nel romanzo tra due stelle, la regina della lirica, Maria Callas, e Violetta Elvin, sono poi di una tenerezza indicibile, col senso tragico della vita di Maria, e per contro la fiducia e l’entusiasmo nelle capacità dell’individuo di crearsi e costruirsi, da solo, il proprio destino di Violetta. Spiega Lauro: “La ricostruzione del rapporto tra la Callas e la Elvin, nel periodo in cui lavorarono, insieme, nei rispettivi ruoli, al Teatro alla Scala di Milano, mi è costato una grande fatica, ma sono soddisfatto di come, dal loro confronto, vengano fuori due profili di donna, entrambi affascinanti, ma diversi. La prima, vittima dell’amore non corrisposto, la seconda, che per amore, abbandona il successo e viene premiata per la sua scelta. La dolcezza che Violetta manifesta nei confronti delle tormentate vicende sentimentali del grande soprano costituisce un altro esempio di solidarietà femminile, non contaminata da effimere rivalità o da gelosie professionali”. L’amicizia al femminile viene anche provata dalla visita, che le rende a Vico Equense, dopo decine di anni, la sua compagna di corso al Teatro Bol’šoj, Inna Zubkovskaja. “Di quanto Violetta fosse in amicizia anche con le compagne della scuola di ballo del Teatro Bol’šoj, spiega Lauro, ne abbiamo prova quando un’amica del cuore degli anni giovanili, Inna Zubkovskaja, fa di tutto per raggiungerla a Vico Equense, solo per rivederla e salutarla, anche se, in quel momento, Violetta si trova a Londra”. Anche se non si incontrano mai, per motivi temporali, il libro tratta ampiamente la figura della grande danzatrice Anna Pavlovna Pavlova, una rivoluzionatrice della storia della danza, come la Elvin piena di coraggio, innovativa e pronta a sfidare la realtà, in nome della libertà e dell’arte, senza condizionamenti.
Un personaggio schivo
Solo di recente Violetta Elvin è stata premiata con il riconoscimento “Sorrento nel Mondo”, ma finora, dopo una vita così intensa, prima a Mosca e poi Londra, ha condotto in Penisola sorrentina un’esistenza silenziosa, appartata, preservata, schiva, presenza intima, discreta, leggera, diafana e trasparente, sul palcoscenico di Vico Equense, apparsa solo nelle ombre notturne delle sue passeggiate o nei mattutini bagni di mare, come una divina ed eterea dea. I vicani la conoscono e la indicano quando passa per strada, rimanendo sorpresi del suo portamento, della sua grazia e della sua amabilità, ma ignorano per lo più il suo passato di grandezza. Violetta ha scelto di vivere la sua vicenda di donna, di moglie e di madre, nell’intimità familiare, nella serenità, nella discrezione, nello stile, proprio della sua persona. Dance The Love è la prima biografia sulla Elvin. Non sono state pubblicate prima d’ora né biografie, né autobiografie, né interviste esaustive. Fotografie di scena, articoli del Time, spezzoni filmici di interpretazioni. Tutto qui. Si è sempre rifiutata, nonostante pressioni e proposte, di rompere il suo riserbo, giustamente gelosa della privacy conquistata e del suo universo familiare, con il marito, ora scomparso, il figlio e gli amici del mondo della danza: da Léonide Massine a Zarko Prebil. “Solo un uomo dotato della sensibilità di Raffaele Lauro, ha detto la ristoratrice santagatese Livia Iaccarino, titolare del mitico ‘don Alfonso’, avrebbe potuto aprire questa cassaforte, dischiudendo il cuore di questa donna e svelando delle cose incredibili”. Conferma Lauro: “Effettivamente, donna Violetta era una cassaforte chiusa, la quale non aveva mai parlato di sé e, addirittura non voleva alcun estraneo presente alle nostre conversazioni, tranne Riccardo Piroddi, che provvedeva a registrarle”. Con questo romanzo tutti i vicani potranno finalmente scoprire chi è e come ha vissuto quella signora misteriosa, dal portamento elegante, che hanno ammirato, per decenni, veder passeggiare, al tramonto, anche quando piove, per le strade del centro storico. Zarko Prebil, il grande coreografo-ballerino, recentemente scomparso, tra i più cari amici di Violetta, dice nel libro, a proposito della sua vicenda biografica: “Piccola storia, la tua? Affatto, Violetta! È una storia così bella, così interessante, così raffinata, così colta, che si intreccia con tutto il quadro storico-politico del Novecento. Questa storia non può cadere nell’oblio”. E allora, il primo merito di questo libro è aver sottratto questa storia all’oscurità dell’oblio e averla consegnata al mondo.
La gastronomia della costiera nel romanzo di Lauro
Come negli altri due romanzi della trilogia, la cultura del territorio viene esaltata da Lauro anche attraverso il cibo. Spiega lo scrittore: “In una terra come la nostra, che ha fatto dell’arte dell’accoglienza, da secoli, il suo specifico socio-economico, il patrimonio identitario si arricchisce anche del rapporto con le colture agricole, con la trasformazione dei prodotti di allevamento e con il legame strettissimo con la qualità e la varietà del cibo, offerto agli ospiti di tutto il mondo. Immaginiamo, per un attimo, se, in Penisola Sorrentina, non fossero state introdotte, secoli addietro, le colture degli aranci, dei limoni e dei noci. Ne avrebbero sofferto anche le melodie musicali! Forse non sarebbero nate neppure “Torna a Surriento” o “Caruso”! La macchia mediterranea ha fornito e fornisce tutti i profumi delle bacche e delle erbe, che esaltano, con sapori naturali, unici e irripetibili, i piatti della tradizione contadina e quelli innovativi della dieta mediterranea, frutto dell’intelligenza, della creatività e della passione dei nostri grandi maestri di cucina. Sono solito paragonare i nostri chef agli artisti-artigiani delle botteghe rinascimentali della Firenze del Quattrocento e del Cinquecento. Non è un caso che io abbia chiamato, nel mio romanzo storico, il primo della trilogia, il cuoco di Casa Correale, Alfonso, in omaggio al nostro maestro-principe degli chef, Alfonso Iaccarino. Né è frutto di improvvisazione il riferimento costante, nel secondo romanzo, dedicato a Lucio Dalla, alla predilezione del grande artista bolognese per la cucina sorrentina e per i prodotti della nostra terra e del nostro mare, una alimentazione semplice e non manipolata, con un must: pomodori cuore di bue, mozzarella e basilico. Anche Violetta Elvin non fu insensibile, fin dal 1951, proprio ai frutti della terra e del mare di Vico Equense. Come tutte le danzatrici, anche donna Violetta mangiava e mangia poco, ma quel poco doveva e deve essere genuino, e ciò che ha favorito lo sposalizio dell’artista con Vico Equense è stata anche la buona cucina. Il romanzo inizia non a caso con la giornata di compleanno (novantaduesimo genetliaco) della protagonista e con la cena di festeggiamento, organizzata dai familiari all’Antica Osteria “Nonna Rosa”, sotto la regia del maestro Peppe Guida. Il battesimo culinario di donna Violetta risale alla sua prima venuta a Vico Equense, nel 1951, con le “pagnottelle”, nei packet lunch pieni di ogni ben di dio che l’albergo Aequa, dove alloggiava, preparava a lei e agli altri amici inglesi per le escursioni su Monte Faito e su Monte Comune. Una sorta di sandwich, più grandi, che i locali chiamavano “pagnottelle”, pane fresco croccante con diversi ripieni: fette di primizie di pomodori cuore di bue, intervallate con mozzarella e foglie di basilico, un filo d’olio, un pizzico di sale e una spruzzatina di origano; cotolette alla milanese, chiuse da foglie grandi di insalata cappuccina, coltivata nell’orto dell’albergo, e parmigiana di melanzane, con mozzarella, basilico e sugo di pomodoro. Quest’ultima pagnottella, la più succulenta, provocava addirittura applausi… a bocca aperta! Il momento clou, comunque, fu il suo primo pranzo a casa Savarese, quando la madre di Fernando preparò per Violetta la sua (famosa) pasta al forno, una specialità di Ischia, da dove originava, con le melanzane fritte, la mozzarella, il sugo dei pomodorini di campagna e tanto, tanto basilico. Fernando, inoltre, aveva girato, all’alba, tutte le spiagge di Vico, aspettando il rientro dei pescatori per “sequestrare” tutti i polipetti pescati. Con quelli, la madre preparò anche un antipasto speciale di polpo verace, insalatina, olive, un filo d’olio e succo di limone, colto di fresco. Un misto di profumi del mare, degli orti e dei giardini di Vico Equense. L’apprezzamento fu riscontrato non solo dai bis, sia dell’antipasto che della pasta, ma, in particolare, dalle esclamazioni di Violetta: Excellent! Excellent!”.
Lo stile del romanzo
Lo stile del romanzo è stato convenuto da Lauro con donna Violetta per una stesura leggera, lieve, “come un passo di danza”. Precisa il prof. Cesare Azan: “Uno stile particolare, che non è monotono, non è unico. Direi che si tratta di un impianto narrativo polimorfico, in cui l’autore è ora narratore esterno, onnisciente, ora, con frequenti irruzioni nel corso della narrazione, si affianca alla storia della protagonista, proponendo giudizi e valutazioni, soprattutto quando lo spanning narrativo, cioè la drammaticità del racconto, si fa più elevato e ricco di pathos e di drammaticità. Nella seconda parte, prevale il dialogo, perché l’autore preferisce far in modo che, progressivamente, Violetta si esprima da sola e racconti da sé la propria vita, diventando persona loquens, l’io narrante, a cui l’autore cede lo scettro nella regia narrativa”. Sottolinea invece la professoressa Angela Barba, studiosa della scrittura di Lauro, il suo è uno stile multisensoriale, che stimola tutti i sensi, tattile, olfattivo, acustico: “che sia un abito, o le note di una melodia, o la serica freschezza di una sciarpa rossa di seta o l’olezzo delle rose bianche, che Violetta Elvin ama moltissimo, o dei frutti freschi, imbanditi nel pranzo a Palazzo Savarese, in occasione della prima visita di Violetta alla famiglia di Fernando, o che sia l’immagine del mare, illuminato dal sole, o di un tramonto o di una notte, che Violetta può contemplare dal suo terrazzo, o il rumore delle onde, che si infrangono sulla battigia de Le Axidie, o il rumore del vento sul Monte Comune, in cui, in una sorta di estasi panica, Violetta ha una premonizione, un’intuizione della vita che l’attende, l’autore ha sempre il dono di saper evocare e di saper ricreare, attraverso la parola, situazioni, paesaggi, luoghi”.
Il finale
Commuove e incanta la scena finale, il “sogno” di Violetta Elvin di ritornare a ballare sul palcoscenico del Bol’šoj, di una delicatezza poetica potente. Violetta sogna, nella fantasia dello scrittore, a novantadue anni, di essere svegliata, nella notte, da una telefonata, da Mosca, dal direttore del Teatro Bol’šoj, il quale le dice che la prima ballerina non potrà danzare e, quindi, richiede il suo intervento. Violetta accetta, non senza perplessità, e si lancia libera nella danza, non sente il peso degli anni, le membra le sono fresche, sveglie, agili e riceve l’applauso di tutti quelli che affollavano le tribune, tutti i personaggi che sono stati significativi nella sua esistenza. Non è un caso che le ultime parole del libro siano quelle del marito Fernando, che le dice: “Brava, sei stata perfetta! Sei bellissima!”, materializzando l’irrealizzabile sogno, di mettere la danza e l’amore insieme. Dance The Love.
Gli amici russi di Violetta
Uno dei più cari amici di sempre della Elvin, scomparso solo qualche mese fa, è stato Zarko Prebil, grande ballerino, che ha studiato al Teatro Bol’šoj, poi è diventato primo ballerino in parecchi teatri, étoile e coreografo. Zarko Prebil è stato il filo conduttore che ha consentito a donna Violetta da Vico di ritornare, quando voleva, a Londra, e di non perdere mai il suo legame col mondo della danza, perché le riferiva tutte le novità. Un altro grande amico di Violetta, è stato il ballerino e coreografo russo Léonide Massine, che nel 1917, mentre si trovava in tournée con la compagnia dei Balletti Russi al Teatro di San Carlo di Napoli, soggiornando a Positano, ospite dello scrittore russo Michail Nikolaevi? Semënov, dalla sua stanza scorse Li Galli, allora di proprietà della famiglia Parlato, che li teneva per la caccia alle quaglie. Se ne innamorò perdutamente e, successivamente, ritornò a Positano e riuscì a comprarle per 300.000 mila lire italiane. Da quando li acquistò, il grande ballerino-coreografo vi trascorreva gran parte dell’anno, ospitava gli amici del mondo della danza, creava coreografie. All’inizio, considerava quel luogo mitico solo un buon ritiro, ma, ben presto, si accorse di aver fatto la cosa più importante della sua vita, perché, su Li Galli, concepì le coreografie di alcune delle sue produzioni più ambiziose. Aspirava a trasformare Li Galli in un luogo dove giovani artisti di tutto il mondo potessero venire a trarre ispirazione e a prepararsi all’arte di Tersicore, voleva creare un grande anfiteatro, una scuola di danza mondiale, come su un palcoscenico, unico al mondo, che guardava a Positano, alla divina costiera, ai Faraglioni di Capri e all’orizzonte marino. Purtroppo ogni tentativo di costruire un anfiteatro fu reso vano dalle mareggiate e dal vento, quasi che le mitiche Sirene si ribellassero ad una profanazione di quelle rocce. Alla morte di Massine ci fu un passaggio ideale di consegna tra i due mostri sacri, di origine russa, innamorati de Li Galli, Massine e Rudolf Nureyev. Nureyev aveva soggiornato spesso, ospite di Massine, su Li Galli, fin dal 1970. Anch’egli si innamorò di quel luogo incantato, tanto che, nel 1989, dieci anni dopo la morte del grande coreografo, li comprò dal figlio Lorca, unico erede di Massine. Il destino, però, gli permise di godere, d’estate, quella magia naturalistica soltanto per poco più di tre anni. Il 3 settembre del 1992, infatti, Rudy salutò per l’ultima volta, baciandoli ripetutamente, i suoi Li Galli. Pochi mesi dopo, nel gennaio del 1993, in Francia, a Lavallois-Perret, il male, allora incurabile, di cui soffriva, l’AIDS, lo avrebbe portato via al mondo e all’arte della danza, consegnandolo alla storia come uno dei più grandi danzatori di tutti i tempi.

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