27/08/2020

di Raffaele Lauro*

L’economia e la società italiana stanno disperatamente tentando di uscire dal periodo più buio dal secondo dopoguerra. La produzione nazionale quest’anno è in caduta senza precedenti, stimata in un -12%, e il prossimo non ci si aspetta che recuperi se non una frazione di quanto perduto. L’esclusione dal lavoro tra disoccupati e inoccupati ha raggiunto i limiti della tollerabilità, molte imprese hanno dovuto chiudere i battenti e ben difficilmente li riapriranno, i redditi si riducono, i debiti insoluti stanno aprendo voragini nei bilanci delle banche e il debito pubblico viaggia verso vette da cui non si può scendere senza farsi molto male. Gli effetti nefasti della pandemia si sono così sommati alle carenze strutturali di un sistema-Paese, che, negli ultimi vent’anni, di fronte alle sfide della globalizzazione e ai “paletti” europei, senza avere la capacità di raccogliere gli stimoli positivi dell’Unione, non ha avuto uno straccio di politica industriale, coerente, continuativa e flessibile. Una barca in mezzo ai flutti, senza una rotta, senza un timone, senza un timoniere!

UN VENTENNIO SENZA UNA POLITICA INDUSTRIALE

I due governi Conte di questa diciottesima legislatura repubblicana, paralizzati da programmi contraddittori, sostenuti da maggioranze spurie, non si sono neppure posto il problema di definire una politica industriale. Il governo attuale, inoltre, travolto dall’emergenza epidemica, ha finora cercato di tamponare la crisi ricorrendo a interventi in tempi normali incompatibili con un’economia di mercato concorrenziale, varando soltanto misure tampone e rivelando una totale mancanza di strategia per l’uscita dal baratro in cui siamo caduti. In particolare, manca una visione e una strategia di “politica industriale” che orienti e indirizzi le scelte di imprese, famiglie e settore pubblico verso quei fattori trainanti lo sviluppo economico-sociale. Si registrano, invece, interventi di puro assistenzialismo, che generano dipendenze interminabili, e solo pochi frammenti di sostegno a qualche importante attività, come innovazione ed export, senza un quadro prospettico per i prossimi anni e senza intaccare i ceppi profondi che da anni hanno penalizzato e impoverito il nostro Paese.
Per affrontare le molte sfide dell’oggi per un domani migliore, la classe politica nella sua interezza e i componenti dell’esecutivo in carica farebbero bene a far tesoro del libro di un esperto con molta esperienza, Salvatore Zecchini, dal titolo “Politica industriale nell’Italia dell’euro”, edito dalla Donzelli, da poco uscito in libreria. Si tratta di un voluminoso saggio sulle manchevolezze e le sfide derivanti dalla mancanza di una “politica industriale” nello scorso ventennio, in cui si analizzano i termini del problema, si chiariscono i fondamenti di un approccio valido e si passa al setaccio quanto messo in campo e attuato da tutti i governi che si sono succeduti dal 2000 al 2020. È un vero unicum nel panorama della letteratura sul tema, in quanto molto è stato scritto su singoli interventi, ma non sull’insieme delle azioni di ogni singolo governo, né sulle loro interconnessioni, o incoerenze.
Innanzitutto si sgombra il campo dalle credenze propagandistiche secondo cui l’euro abbia contribuito ai mali della nostra economia, perché i dati le smentiscono e il confronto con gli altri Paesi membri evidenzia che tutti hanno dovuto adattarsi all’unione monetaria, conseguendo un diverso grado di successo. È importante, quindi, che l’Autore abbia chiarito all’inizio quanto la “politica industriale” sia cruciale per risolvere le debolezze del sistema e potenziarne i punti di forza in un contesto di estesa integrazione nel “mercato unico europeo”, di limiti condivisi tra Stati alla loro autonomia di politica economica e di straordinaria apertura ai concorrenti esterni all’area. Questa consapevolezza non è stata presente nell’azione dei passati governi per diversi motivi, tra cui la scarsa chiarezza sui contenuti di una politica di tal fatta. Si è ritenuto erroneamente che bastassero gli incentivi e gli aiuti a questo o a quel settore industriale per realizzarla, mentre al contrario essa abbraccia tutti i nodi del sistema, tanto del manifatturiero che dei servizi, perché vi è una stretta interdipendenza tra questi settori. La conferma, ad esempio, si trova nelle tendenze oggi in atto nel mondo, in cui si assiste a una “servitizzazione” dell’industria, nel senso che il suo successo è legato sempre più ai servizi di cui si avvale prima, durante e dopo i processi produttivi.

LE CONSEGUENZE DEVASTANTI SUL SISTEMA E I NODI RIMASTI IRRISOLTI

Se fare “politica industriale”, quindi, significa modificare l’allocazione delle risorse determinata dal mercato per stimolare in modo sostenibile nel tempo competitività e crescita economica e sociale, bisogna definire i suoi tratti e caratteristiche per poterne valutare l’adeguatezza, in ciò superando la difficoltà che gli esperti hanno incontrato nel riuscire a coglierne le molte ramificazioni. Di particolare rilievo è l’accento posto sulla disciplina del mercato del lavoro, sull’efficienza del sistema finanziario nel fornire risorse alle imprese meritevoli, sulle condizioni per diffondere ricerca e innovazione nel sistema imprenditoriale e sul contesto ambientale in cui operano le imprese, ovvero giustizia civile, burocrazia, tassazione e sicurezza. Il confronto con gli approcci seguìti nei maggiori Paesi sviluppati serve a comprendere l’influenza reciproca che è esercitata dal posizionamento del nostro Paese in un sistema internazionale, in cui bisogna tener conto delle azioni degli altri per rispondere alle ricadute sfavorevoli e sfruttare quelle favorevoli. Più pervasivi sono stati l’influenza e i condizionamenti dell’Unione Europea, che si sono articolati in diversi rami, nella disciplina degli aiuti di Stato e della concorrenza di mercato, nella politica commerciale verso l’esterno, nelle misure per le grandi industrie in crisi, quali la siderurgia e la cantieristica, nei programmi di ricerca e sviluppo per l’avanzamento tecnologico e, più tardivamente, nel ritorno di interesse al disegno di una politica industriale di respiro europeo, alla quale, peraltro, sono stati destinati finanziamenti modesti. Le iniziative di Bruxelles hanno avuto in realtà un ruolo proficuo di stimolo e anche di guida per il nostro Paese soltanto nell’avviare politiche di settore e acquisire una visione di insieme sul da farsi.
Su questo sfondo l’Autore traccia l’evoluzione del sistema produttivo e identifica un insieme di fattori nodali sui quali sarebbe stato necessario l’intervento pubblico per emendare progressivamente le debolezze esistenti e per far leva più efficacemente che nel passato sui fattori di traino del potenziale di competitività e crescita economica. Questi sono giustamente così individuati da Zecchini: l’investimento in ricerca e innovazione, da intensificare ed estendere a tutto il tessuto imprenditoriale, la formazione delle competenze nei campi richiesti dal sistema economico, l’internazionalizzazione delle PMI e la loro aggregazione per superare gli svantaggi della minore dimensione, la crescita dimensionale delle imprese per competere meglio, l’accesso a una molteplicità di fonti di finanziamento, lo sviluppo dei servizi alle imprese, dalla logistica al marketing, la concorrenza equa, l’accesso all’energia a costi comparabili a quelli dei concorrenti esteri, la flessibilità nel lavoro per adattarsi alla rapidità della quarta rivoluzione industriale in corso, il potenziamento delle infrastrutture materiali e immateriali, la sicurezza sul territorio e nell’ambiente, la semplificazione amministrativa e normativa e, non da ultimo, il “sistema di governance della politica industriale dal momento della formulazione alla fase di attuazione e verifica dei risultati”.

LE OCCASIONI MANCATE: NEL 2005/2006 E NEL 2015/2016

Come hanno risposto i governi a queste esigenze? L’analisi è condotta sulla base delle misure prese ed effettivamente attuate, con dovizia di dati e richiamando studi approfonditi sull’efficacia dei singoli interventi. Il quadro che ne scaturisce è di politiche disorganiche, prive di un chiaro programma, frammentarie, incerte negli orientamenti, nell’attuazione e nell’impegno di risorse, con scarso coordinamento tra autorità centrali e periferiche, con un misto di continuità tra governi su alcuni fronti e discontinuità su altri, insieme a qualche inversione di marcia: il tutto, infine, ostaggio della burocrazia, di procedure complesse e inefficaci rispetto al loro scopo, di resistenze latenti al cambiamento e con importanti vuoti. La normativa, richiesta anche dall’UE, per favorire la concorrenza su un piano esente da preferenze e posizioni dominanti non è riuscita a venire alla luce, se non un paio di anni fa e con modesta portata: gli investimenti in infrastrutture sono stati decurtati dopo lo slancio impresso nella prima metà degli anni 2000, la detassazione dei redditi d’impresa è risultata marginale, il peso della giustizia civile sull’economia per nulla alleviato, l’insicurezza sul territorio e la malversazione delle risorse non sono stati aggrediti in misura consistente. Sovente i lunghi ritardi nel tradurre in realtà i nuovi interventi ne hanno compromesso l’utilità stessa. Su qualche fronte, invece, sono stati fatti passi in avanti che potrebbero produrre positivi risultati alla lunga: ad esempio, la costituzione e i compiti delle autorità indipendenti di settore, la creazione del mercato energetico, il varo del contratto di rete per l’aggregazione delle PMI, il piano per sostenere il passaggio a Industria 4.0 e quello per la digitalizzazione del Paese, la normativa per l’equitycrowdfunding.
Soltanto in due occasioni i governi hanno tentato di varare un programma coerente di politica industriale, seppure di portata parziale: una prima volta, nel 2005-2006, e una seconda volta dieci anni dopo. Nel primo caso, di cui lo scrivente è stato testimone diretto nella responsabilità di capo di Gabinetto del MISE, divergenze all’interno del governo Berlusconi, rivalità e protagonismo di alcuni ministri (Tremonti e Scajola) ne impedirono l’approvazione e l’esecuzione. Nel secondo caso, nel periodo successivo al varo di diversi incentivi per l’investimento in ricerca e innovazione, questi nell’ultima parte di legislatura furono tardivamente integrati nel programma Impresa 4.0. Due occasioni mancate!

L’ECONOMIA FUTURA E LA QUARTA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE, DOPO LO CHOC PANDEMICO

L’Autore conclude l’estesa indagine e i riscontri sul campo con indicazioni per migliorare l’approccio seguito finora. Auspica, in particolare, un cambiamento di paradigma di policy nel senso di avanzare verso una politica industriale “funzionale” all’evoluzione del sistema produttivo, nel senso indicato dalla rivoluzione tecnologica in atto. Una politica sostenuta in particolare da interventi per il potenziamento delle infrastrutture strategiche e per migliorare le condizioni di contesto per l’impresa. In breve, una politica che aiuti a traghettare l’economia e non solo l’industria nella “quarta rivoluzione industriale”, facendo perno soprattutto sulla realizzazione dell’economia della conoscenza attraverso l’innovazione, la ricerca, le infrastrutture e la formazione ad ampio raggio. Si prefigura un programma olistico che si concentri su poche assi tra cui individua il sostegno all’imprenditorialità, una più ampia articolazione del sistema finanziario, la formazione di una classe manageriale capace di gestire il cambiamento e la riforma delle istituzioni rilevanti per l’economia: dalla giustizia civile agli appalti e commesse pubblici, agli eccessi della normazione e regolamentazione, nonché alle disfunzioni della pubblica amministrazione. Con una simile impostazione, dopo lo choc pandemico, si supererebbero le vecchie dicotomie tra misure orizzontali e verticali, tra difensive e strategiche, tra Stato imprenditore e Stato regolatore, tra Stato promotore e Stato facilitatore. Tutti gli strumenti andrebbero messi in campo, ma in un programma organico e coerente in cui ogni azione abbia la sua giustificazione in una logica serrata. Data l’ampiezza della sfida, l’Autore giustamente si chiede, e lo scrivente con lui, se le sue siano semplicemente indicazioni velleitarie o vi siano margini e capacità per realizzarle in qualche misura, nel corso di questa disgraziata legislatura e con il governo attualmente in carica. In altre parole, se questa legislatura debba considerarsi, dopo vent’anni di attese deluse, definitivamente perduta ai fini della definizione di una politica industriale, degna di questo nome, oppure se l’attuale leadership politica, purtroppo dominata finora dalla confusione e dalla inconsistenza gestionale, sia in grado di affrontare e di risolvere l’annosa questione. Exigua his tribuenda fides, qui multa loquuntur!

 * Segretario Generale Unimpresa

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